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Il lusso ai tempi del Coronavirus (e di Greta)

Intervista esclusiva con Matteo Atti, Executive Vice President Marketing e Innovazione di VistaJet, seconda compagnia di jet privati al mondo

È stato uno dei primi italiani residenti in Gran Bretagna a vivere l’emergenza internazionale per il Coronavirus, mentre viaggia tra Svizzera, Italia, UK e US. Matteo Atti, 43 anni, Executive Vice President Marketing e Innovazione di VistaJet, la compagnia aerea di aviazione privata di lusso numero due al mondo, offre a Luxury&Finance il punto di vista di chi, già da tempo, ha attivato per tutta la compagnia un’allerta elegante e discreta sulla questione.

Atti, come si gestisce un’emergenza di questo genere in un’azienda come la vostra, che vive di trasporto e persone che si incontrano e che non intendono fermare né loro stessi, né gli affari?

La possibilità di ridurre la vulnerabilità rispetto alle dinamiche del mondo è uno dei motivi per cui le persone preferiscono viaggiare su aerei privati. Livelli di sicurezza più elevati, flessibilità degli spostamenti, una privacy che non è garantita da nessun altro tipo di trasporto: nei momenti di instabilità si osserva un movimento maggiore dell’aviazione privata, che diventa uno degli strumenti della gestione delle emergenze, quando c’è bisogno di reagire con prontezza a situazioni “macro”, ovvero di cogliere opportunità specifiche dove gli altri non arrivano.

In effetti VistaJet raggiunge 187 paesi nel mondo. Che cosa garantisce che un investimento così alto (un viaggio con una compagnia privata costa come parecchi altri viaggi in business su un volo di linea, ndr.) abbia un ritorno altrettanto fruttuoso?

Numerose ricerche dimostrano la relazione fra l’utilizzo dell’aviazione privata e il successo di una persona o di un’azienda, sia perché a utilizzarla sono persone o aziende che hanno già successo, sia perché coloro che scelgono l’aviazione privata come investimento razionale vanno a chiudere contratti più importanti e hanno una crescita maggiore nel tempo. Una delle grandi differenze fra aviazione privata e commerciale è la possibilità di consentire meeting faccia a faccia, perché i contratti cruciali vengono ancora stipulati fra persone che si incontrano e alla fine si stringono la mano. L’elemento della fiducia reciproca che nasce di persona non ha eguali, questo è il modo in cui il grande business continua a funzionare.

Per le persone di successo di cui stiamo parlando la gestione della privacy e della propria immagine è una componente rilevante del business. Quali sono i criteri con cui vi muovete per garantirla?

Non solo rispettiamo i dettami del GDPR nei confronti dei nostri clienti, ma anche all’interno dell’azienda i dettagli dei voli e dei passeggeri vengono condivisi solo fra coloro che se ne occupano direttamente. Inoltre, poiché anche gli aerei hanno una “targa” (il numero di coda, tail number, ndr.), molti manager preferiscono viaggiare con una flotta di aviazione privata anziché su un aereo di proprietà, perché il loro velivolo sarebbe identificabile. Questo fa la differenza soprattutto in casi di mergers and acquisitions, di esplorazione di nuovi business e di tutti quei deal in cui giocare d’anticipo e in segreto consente un vantaggio competitivo unico.

Di recente VistaJet ha partecipato al Forum di Davos, dove quest’anno è arrivata anche Greta Thumberg, che rappresenta una prospettiva lontana dal lusso ma comunque ineludibile. Come si occupa di sostenibilità ambientale un’azienda come la vostra?

Proprio Davos è stata l’occasione per presentare il nostro whitepaper Sustainability in Aviation sugli aspetti cruciali di questo argomento (il pdf è disponibile sul sito www.vistajet.com/sustainability) e le nostre iniziative concrete per ridurre l’impatto di ogni singolo volo. Innanzitutto, abbiamo considerato la grande inefficienza dell’aviazione privata, cioè i voli senza passeggeri per il riposizionamento degli aeromobili, che statisticamente sono il 40% degli spostamenti: VistaJet è l’unica compagnia privata che copre l’intero pianeta e questo ci consente di avere il 25% in meno di ferry flights perché lasciamo gli aerei dove atterrano e li facciamo raggiungere il passeggero successivo più vicino. Poi, abbiamo agito sulla cabina, scegliendo oggetti riutilizzabili, eliminando per quanto possibile l’usa e getta (creme più grandi, pigiami da portare a casa, mascherine di cachemire e seta…), rimuovendo gli oggetti meno usati e optando ove possibile per materiali più leggeri, per non trasportare peso inutile in giro per il mondo. Ci siamo dati un programma mondiale di carbon offsetting, siamo i più grandi contributor allo schema europeo EU-ETS nell’aviazione privata (il sistema di scambio di quote di emissione, ndr.) e, anche se non è obbligatorio, abbiamo deciso di estenderlo a livello mondiale. Non stiamo spingendo le persone a viaggiare di più e ci impegniamo a suggerire: “Se devi viaggiare, prova a farlo con una compagnia che si sta impegnando a ridurre l’impatto di ogni volo”.

In tempo di Brexit lei è certamente un expat di cui il Regno Unito non vorrà fare a meno. Quante occasioni potrebbe perdere la Gran Bretagna con questa posizione di chiusura?

In generale, credo che Londra manterrà la sua natura internazionale. La differenza più grossa si sentirà nei centri minori, dove la manodopera non qualificata è stata più utilizzata fino a Brexit. Non sono ancora state definite politiche precise per l’immigrazione, ma sembra che la direzione sarà quella di continuare ad attrarre talenti di alto livello. Le cose cambieranno invece per la produttività, perché aumentare la burocrazia e la complessità può ridurre il business e il numero di transazioni.

Lei vive a Londra da quasi dieci anni, si aspettava questa situazione?

La Gran Bretagna ha sempre avuto una posizione più “euro-distaccata” rispetto ai paesi continentali, più attenta all’aspetto economico e meno ai valori, ma nessuno si aspettava questo risultato. La cosa più sorprendente è stata che, nonostante un esteso dibattito, le posizioni non siano cambiate tra il giorno del referendum e il momento della firma dell’uscita: la coscienza pubblica rimane scissa tra opportunità internazionaliste e desiderio di indipendenza nazionale.

Visto che parliamo di aerei, immaginiamo di guardare il mondo dall’alto. Come sta l’economia globale? E quale sarà la prossima via del lusso?

L’economia mondiale procede, non c’è recessione. Dopo il 2008 c’è più consapevolezza delle possibili dinamiche fra settori e avvenimenti non direttamente collegati. La gestione delle dinamiche macro, a sua volta, da una parte genera maggior reattività per salvaguardare lo status quo, dall’altra accelera le risposte del mondo intero a determinate situazioni, accelerandole ulteriormente. Passa meno tempo fra la crisi e la reazione messa in atto per risolverla e, in questo, chi persegue un approccio più tradizionalista rischia di scomparire.

In ogni caso, il credito è disponibile e la voglia di innovazione è fortissima. Con questo deve fare i conti anche il mondo del lusso. Ciò in cui le persone si vogliono distinguere non è il fatto di possedere oggetti, bensì di poter scegliere. Quindi è l’innovazione sul consumatore a permettere di trovare la chiave del cuore del cliente. In questa prospettiva, l’ipersegmentazione ci consentirà di entrare in contatto con le passioni delle persone: proprio perché “al cuor non si comanda” è fondamentale intercettare per che cosa sussulterà. Il lusso sarà sempre più una cross industry, in cui la competizione e le sinergie possibili non rispetteranno più le differenze di prodotto: chi produce auto, ad esempio, deve considerare come si muovono coloro che producono orologi e gioielli, ma anche i trend nel mondo del viaggio e dell’ospitalità. Da questo punto di vista l’Inghilterra è una scuola privilegiata, perché permette di muoversi agilmente fra i settori, mescolando le competenze sviluppate su prodotti diversi. Così è possibile realizzare quell’ibridazione che farà dell’innovazione costante un successo.

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