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SEP, il lusso come leva per il cambiamento

Impostato correttamente, il business che funziona valorizza la persona, le tradizioni, il lavoro manuale e il libero mercato.

Da un lato l’amore per il Medioriente maturato sin da bambina, qualcosa di 'irrazionale' per una persona nata e cresciuta nella 'provincia granda' (il Cuneese, ndr.) senza alcun legame familiare con quelle terre lontane; dall’altro, la passione per l’economia coltivata con il percorso più razionale possibile di una laurea alla Bocconi di Milano nei primi Anni Novanta: è nell’incrocio di queste due forze che si coglie il senso del brand SEP di Roberta Ventura e suo marito Stefano D’Ambrosio, che il 23 settembre lancia il suo primo negozio monomarca in Italia, in via dell’Unione a Milano, quarto store nel mondo dopo quelli di Amman, Berlino e Ginevra. Il core business del marchio è rappresentato da un numero selezionato di capi di abbigliamento e accessori per la casa – dalla mitica keffiyah rivisitata in colori sorprendenti, a cuscini e scialli in lino – tutti (e qui veniamo all’esclusiva) ricamati a mano e firmati personalmente da donne rifugiate in Giordania provenienti da Siria e Palestina.

Non la classica iniziativa benefica
“Esatto. Non si tratta di un’attività di charity, né di una produzione per il pity purchase (gli “acquisti per pietà” effettuati a poco prezzo, ndr.) che non valorizza l’oggetto, spesso anche di scarsa qualità, e non migliora sensibilmente le condizioni di chi lo produce e di chi lo vende. I nostri prodotti uniscono il design italiano, alcuni dei più prestigiosi fornitori di materiali al mondo e il ricamo punto croce del Medioriente, quello della tradizione ottocentesca che si trova addirittura nei musei. Nascono per essere di lusso e, soprattutto, per consentire a chi li produce di arrivare sopra la soglia di povertà”.

Per comprendere la forza e intuire il coraggio dell’impresa SEP – che sta per Social Enterprise Project e vanta anche la certificazione di B Corp – è doveroso un passo indietro, che poi è stato il primo della lunga strada percorsa fino a oggi da Ventura, prima da sola e poi con il marito Stefano. È il 1997 quando Roberta va a preparare la tesi in Economia Aziendale in Libano, ottenendo anche una internship alla sede locale della Reuters. Grazie al supporto di un collega giornalista, riesce a organizzare la sua prima visita in un campo di profughi palestinesi scoprendo un mondo che raramente si conosce: i campi sono chiusi, sottoposti al coprifuoco notturno, spesso in mano a fazioni interne, con adulti per lo più senza lavoro e giovani con scuole di fortuna, gestite grazie alla buona volontà di Ong. Le iniziative umanitarie non riescono a cambiare la situazione, nonostante gli ingenti fondi che stanziano da anni, e la depressione è la malattia più diffusa fra coloro che hanno perso la strada delle proprie radici ma non possono nemmeno piantarle altrove. È l’Eureka Moment della vita di Roberta: con le sue competenze, prima o poi – si ripromette - farà qualcosa per invertire la rotta di quelle persone.

E che cosa ha fatto?

“Ho preparato la strada con vent’anni di lavoro in Finanza, prima a Londra e poi a Ginevra, perché serviva una base economica solida. Vent’anni in cui ho mantenuto i contatti attivi e i canali di comunicazione aperti, tornando a far visita ai campi profughi nel 2013, questa volta in Giordania. Qui la situazione è leggermente migliore ma i profughi restano sempre rifugiati e molto, molto difficilmente ottengono un lavoro e riescono a emanciparsi, specialmente se si tratta di donne. Allora ho ascoltato le persone dei campi ho capito come volevano essere aiutate”.

Come?
“Non volevano più aiuti a pioggia e anche io dovevo smettere di finanziare progetti di sostegno esterno creando lavoro in base al più classico meccanismo di mercato: quello di domanda e offerta. Ho unito tutti i dati raccolti in tanti anni e il quadro si è delineato chiaro. Conoscevo bene il settore del lusso, conoscevo altrettanto le meraviglie del ricamo tradizionale libanese, conoscevo infine l’anello debole dell’emancipazione: le donne. Così ho cominciato a immaginare di monetizzare il loro talento e, soprattutto, di retribuirlo”.

Niente elemosine, dunque?
“Nessuno deve lavorare gratis e nessuno deve essere sottopagato, ma nemmeno ultrapagato. Tutto è stato razionalizzato secondo procedure precise, non ci sono negoziazioni ad personam e le lavoratrici sono incentivate a dare il massimo, perché si sentono valorizzate sia per chi sono, sia per ciò che fanno”.

Ecco, appunto: che cosa fanno?
Ricamano i capi che noi facciamo produrre con i migliori filati e le migliori fatture possibili: cashmere marchigiano, lino toscano, pret-à-porter da un’azienda pugliese, home collection dalla Lituania, una particolare giacca da un produttore turco che lavora anche per le griffe dell’alta moda e infine il nostro best seller – la keffiyah – che viene prodotta in cotone dal Pakistan e in poliestere dalla Giordania”.

Chi garantisce un risultato eccellente?
“L’Accademia che abbiamo fondato. Nel 2014 siamo partiti con 20 artiste ma sapevamo che il loro numero avrebbe dovuto aumentare: per crescere a doppia cifra, ottenere un business sostenibile e prediligere la qualità. Così abbiamo fondato una scuola che sforna ogni anno fra gli 80 e i 100 nuovi talenti e oggi possiamo contare su circa 800 artiste che lavorano a rotazione. Effettivamente, stiamo crescendo a doppia cifra senza problemi di forniture: nel 2021 abbiamo prodotto 6.000 pezzi, mentre quest’anno siamo a 12.000”.

Avete mai considerato il conto terzi?
“No, non avrebbe consentito di portare le persone che lavorano per noi oltre la soglia della povertà. Sin dal primo giorno volevamo sviluppare un nostro brand, con un posizionamento medio-alto e un’identificazione molto forte da parte di chi ci lavora, tanto che – come abbiamo detto – ogni pezzo è firmato da chi lo finalizza”.

Evidentemente funziona, se aprite la quarta boutique. Come si divide il vostro mercato?
“Parliamo di un 50% venduto online e di un 50% che passa principalmente attraverso i nostri negozi b2c. Con quello di Milano diventano quattro e abbiamo in programma di raddoppiarli nel corso dei prossimi 5 anni. Questo ci rende particolarmente orgogliosi, in un momento in cui tanti negozi tradizionali chiudono. D’altronde, la nostra è una storia di persone… e di persona va raccontata, perché non c’è un pezzo uguale all’altro in queste collezioni immaginate per essere gender neutral, ageless e versatili.

E sostenibili. Ci spiega l’impegno di SEP per l’ambiente a partire dalla certificazione B Corp?
“È senza dubbio un prestigioso riconoscimento al nostro tentativo di bilanciare correttamente l’interazione tra Profit, People e Planet, contando che senza Profit si può fare poco. Il prossimo passo è quello di diminuire l’impatto dei trasporti, che per noi sono per certi versi ineludibili, e di avere l’etichetta per l’impatto ambientale di ogni singolo capo”.

Ha investito tanto, ha coinvolto anche so marito in veste di Cfo… Per voi l’impresa è sostenibile?

“Certo, la finanza paga meglio ma piano piano arriveremo a pagarci lo stipendio entrambi”.

E a innescare una piccola rivoluzione: priceless.

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